Come cambieranno le pensioni nell’era Monti / 2

La ricetta per strappare un applauso garantito in un dibattito televisivo, alla bocciofila o al bar sotto casa? Basta sentenziare, alzando magari un po’ la voce, che le pensioni non si toccano e che dovrebbero essere ben altre le tasche in cui il governo Monti dovrebbe mettere le mani per risanare il bilancio pubblico. Lo sanno bene i politici che appoggiavano il precedente governo, che difendono le stesse idee che hanno portato di recente lo spread tra i titoli italiani e tedeschi a livelli di guardia. E che oggi alzano le barricate contro la possibile accelerazione del passaggio al sistema contributivo puro e al superamento delle pensioni di anzianità. Detto per inciso: far salire l’età pensionistica funziona se aumenta di pari proporzioni anche il Pil nazionale (al netto della produttività); altrimenti si innesca quel conflitto tra giovani e anziani (e viceversa), che ormai bussa alle porte in modo inquietante. Nei suoi primi interventi il premier Mario Monti ha ricordato l’importanza di prendere decisioni anche a vantaggio di chi ancora non vota. E in base alle sue decisioni, l’Esecutivo – anche se si tratta di un governo tecnico – verrà giudicato: dall’opinione pubblica, dagli addetti ai lavori, dalla storia.

Un criterio per valutare il suo operato in materia pensioni è il principio di equità. Il che significa chiedersi: l’assegno pensionistico percepito rispecchia i contributi versati all’ente previdenziale dal lavoratore? Il primo calcolo è semplice: gli enti previdenziali italiani erogano pensioni per 258 miliardi di euro l’anno, ossia quasi tre volte la spesa della pubblica amministrazione. Proviamo a parametrare l’esborso con le entrate, che sono pari a 209 miliardi di euro l’anno e si ottiene un 80,6% di copertura della spesa pensionistica sull’incasso contributivo. Il che significa che per ogni euro versato di pensione ci sono 20 centesimi di euro di debito cumulato ogni anno, che vanno sulle spalle delle future generazioni. Un dato da ritoccare all’insù: nel conto sono inclusi anche i contributi retributivi di chi lavorava da più di 18 anni nel 1995 e non è ancora in pensione.

Altro calcolo: è quello realizzato da due economisti dell’Università di Genova, Luca Beltrametti e Matteo Della Valle, riguardo al debito pensionistico implicito. Che quello italiano sia nettamente superiore a quello degli altri Paesi europei è storicamente fisiologico, viste le differenze tra sistemi. Nel loro studio articolato i due economisti hanno incrociato i dati con la redditività dei titoli di debito pubblici (fotografati prima della crisi), per verificare la sostenibilità del debito pensionistico implicito rispetto alla redditività del gestore–Stato. L’Italia resta sempre la più esposta, con un debito pensionistico implicito pari al 197% del Pil (dati 2007), contro un 162% del Regno Unito (2010) e il 95% della Germania (2009) (vedi «Il Sole 24 Ore» del 26 ottobre 2011).

Dati che testimoniano della "generosità" complessiva del sistema Italia. Un sistema però con figli e figliastri: con i 500mila baby pensionati, che hanno lavorato 15 anni sei mesi e un giorno e si vedono garantite prestazioni pari anche a dieci volte i contributi versati; o con gli oltre 9 milioni di integrazioni al minimo per quei lavoratori (il 40% del totale) che hanno versato una somma esigua di contributi e in cui lo Stato deve intervenire con fini assistenziali (per non citare i vitalizi dei politici). La divisione tra previdenza e assistenza, che riguarda anche la previdenza delle donne, destinatarie di gran parte delle prestazioni di reversibilità, il cui accesso al mondo del lavoro è più difficile rispetto agli uomini. La confusione tra le funzioni previdenziali e assistenziali mantiene il sistema sufficientemente indistinto. Strutturalmente in squilibrio – o troppo munifico o troppo rigido – per evitare di evidenziare privilegi e negligenze. Per ciascuna pensione, diceva un politico della Prima Repubblica, ci sono da uno a tre voti da conquistare o lasciare all’avversario. Una lezione da lasciare negli archivi della storia e da non trasferire nella Terza Repubblica.

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  • fiore |

    Sono della classe 1953, lavoro da sempre ho iniziato ancora minorenne in fabbrica (sto pagando la ricongiunzione di 2 anni) quindi nel 2013 compirò 60 anni e avrei raggiunto i 40. Trovo insopportabile la politica italiana passata e ancor più quella che si sta proclamando come la repubblica dell’equità fiscale,della riduzione degli sprechi…pensioni, IVA,ICI,patrimoniale ecc…come mai escono fuori solo ora tanti cervelli capaci di pensare come impiccare le persone che hanno un lavoro dipendente? Ma qualcuno ha pensato che una lavoratrice a 55-60 anni si trova a dover fare da badante a genitori anziani e malati,aiutare i figli disoccupati,fare la tata ai nipoti (se i figli sono fortunatamente ancora occupati, pagare da sola un mutuo per la prima casa e infine, dimenticavo, lavorare 36-40 ore a settimana fino a 63-65-70 anni! Ditelo chiaramente che dobbiamo prenotare immediatamente un posto al cimitero!

  • morales |

    Io ho 5 anni per raggiungere i 40 anni di anzianità, credo di avre contribuito con tutti i miei anni di lavoro e soldi versati allo stato a fare il mio dovere di cittadina italiana. Ora, di punto in bianco mi si chiede di fare un sacrificio e di lavorare ancora di più (non so quanto di più), alla faccia di quei miei colleghi che se ne sono andati in pensione con il governo Craxi a 42, 45 anni….e io devo pagare per degli errori fatti a suo tempo da quei politici che mi ritrovo ancor oggi al parlamento? Ma siamo matti!!!!! Sono nuovamente basita. E poi bella la scusa data dalla Fornero: così non penalizziamo i futuri giovani pensionati. Ma che stai a dire? Se io vado in pensione, cedo il mio posto di lavoro ad un giovane diminuendo il tasso di disoccupazione. Se invece lavoro ancora 10 anni, quand’è che quel giovane lavorerà?… e poi, teniamo pure conto che oggi come oggi, le aziende stanno chiudendo giorno dopo giorno, e se anche la mia azienda dovesse chiudere, che facciomo noi nati tra il 50 e il 62?????
    Veniamo da lei Sig.ra Fornero a chiedere cosa ci consiglia di fare? Ma mi faccia il piacere, lei vive fuori dalla realtà del popolo che lavora veramente…

  • morris |

    l’abolizione dei 40 anni non può avvenire da un giorno all’altro. In tanti resterebbero senza pensione e senza lavoro. tOGLIERE I 40 ANNI A CHI LI HA APPENA RAGGIUNTI O A CHI STA PER RAGGIUNGERLI SAREBBE UNA UMILIAZIONE INSOPPORTABILE!

  • Speriamo bene |

    Sono fiducioso sul nuovo governo Monti. Secondo me è sulla sbandierata “equità” che si giocano gli eventuali interventi che vorrà fare sulle sulle diverse situazioni non solo pensionistiche,
    ma “tutte italiane”. Vedremo e valuteremo presto cosa saprà fare per i cittadini comuni nella considerazione che non essendo un politico di professione penso che i prossimi provvedimenti legislativi avranno i tratti di chi ha sempre considerato veri i valori che hanno accompagnato l’umanità nella storia sino ai nostri giorni. Nella speranza di un futuro migliore auguro ogni bene al Governo Monti – W l’Europa – W l’Italia

  • Luciano |

    Sono un dipendente dello stato (forze dell’ordine)che ha lavorato per 35 anni con tutte le problematiche che solo noi che operiamo quodidianamente per la salvaguardia dei cittadini sappiamo. Tuttora sto lavorando grazie alla finanziaria approvata nell’ agosto del 2010 la quale mi obblica a fare un anno in più di lavoro. Mi auguro che i nuovi provvedimenti non tocchino i 40 anni di contributi. Noi non siamo politici che giocano sulla pelle della povera gente. In tutti questi anni di lavoro mi sono sempre comportato in modo onesto è giusto con tutti sia dentro la mia amministrazione che fuori, malgrado ciò sono arrivato ad una triste conclusione GLI ONESTI sono diventati DISONESTI e i DISONESTI son diventati ONESTI.

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