Se la ricetta è «zero titoli» (azionari)

I fondi pensione aperti e preesistenti italiani hanno ridotto o lo stanno per fare l’esposizione in azioni nei prossimi mesi. Non sono dello stesso avviso, invece, i fondi chiusi che non hanno intenzione di limare il peso dell’equity in portafoglio (peraltro limitato). Strategie divergenti, quindi, tra gli operatori italiani della previdenza complementare che si interrogano su quanto fatto finora e provano a delineare le mosse future per orientare gli asset e tornare a riportare a quote decenti i rendimenti. Meglio puntare sulle azioni a prezzi più bassi o rifugiarsi nei rendimenti più contenuti delle obbligazioni? A dare una risposta è un’indagine condotta da Mefop, società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione, che ha interpellato fondi pensione chiusi, aperti, preesistenti, ma anche gestori e consulenti (a cui è stato chiesto quale strategia adotterebbero qualora operassero in un fondo pensione), rappresentativi per il 60% dell’universo consultato (90 risposte ottenute su 150 domande inviate) degli addetti ai lavori nel secondo pilastro in Italia. Unanime il giudizio complessivo positivo sulla resistenza del sistema dei fondi pensione italiani alla crisi dei mercati finanziari. Dietro la flessione media dell’8,5% del 2008 (a fronte di un dimezzamento del valore dei principali indici azionari mondiali) del valore dei portafogli degli aderenti, il 100% del campione dei fondi aperti che ha risposto al questionario ritiene che non si poteva fare di meglio. Un po’ più critici (anche se comunque positivi) i fondi negoziali e i consulenti, dove la quota di chi non fa "mea culpa" si attesta intorno al 60 per cento. Sulle strategie attuali di riposizionamento delle asset class, le tipologie di forme previdenziali assumono, invece, posizioni distanti. Colpisce, in particolare, la disparità tra la fetta di gestori che ha indicato per il futuro un allentamento dell’esposizione azionaria nel 2009 (12%) rispetto alle intenzioni di fondi aperti (86%) e preesistenti (88%), i cui portafogli sono però movimentati ugualmente da gestori professionisti. Allo stesso tempo, sensibili differenze si rilevano tra chi intende ormai superato il modello di gestione a benchmark con vincoli di tracking error volatility, e chi, invece, è contrario a un cambiamento.

A bocciare il benchmark è la maggioranza dei gestori (62,5%), consulenti (67%) e fondi preesistenti (53%). Il motivo? L’eccessiva rigidità del modello che, secondo quanto risulta dall’indagine, vincola fortemente gli spazi di manovra del gestore. Più «conservatori», invece, i fondi chiusi ("solo" quattro su 10 bocciano il benchmark) e, soprattutto, i fondi aperti (che lo apprezzano nel 78% dei casi).

Vito Lops