Il 2008, anno della peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni, si chiuderà con un risultato inevitabilmente deludente per i fondi pensione italiani, sia in termini di rendimenti (ricordo il dato medio del periodo gennaio-ottobre: -8,2 per cento), sia in termini di nuove adesioni (anche se la crescita di queste ultime, attestatasi al cinque per cento, nelle circostanze date non era per niente scontata).
Nel trarre un bilancio complessivo dell’anno trascorso non può tuttavia essere sottaciuto il dinamismo che caratterizza la crescita del patrimonio gestito dai fondi (venti per cento su base annuale). Un fenomeno cui sarebbe opportuno fosse dedicata maggiore attenzione giacché, quanto meno a livello quantitativo e in chiave prospettica, si rivela di sicura importanza per l’intera economia italiana.
Uno sguardo ai dati. Il flusso delle nuove risorse che affluirà ai fondi pensione nel 2008 è stimabile in 9,5 miliardi di Euro. Una cifra che sommata ai circa 53 miliardi che costituivano l’ammontare della massa gestita alla fine del 2007, consente di stimare al 3,5 per cento del PIL il peso dei fondi pensione sulla ricchezza nazionale del Paese.
Tale flusso può, in linea di massima, essere assunto come costante ed è perciò plausibile, pur senza mettere in conto un ulteriore aumento delle adesioni, ipotizzare che nei prossimi 10 anni il rapporto tra le masse gestite dai fondi pensione e il PIL salirà a circa l’otto/nove per cento. Si tratta di un dato di tutto rispetto, anche in ambito internazionale, e che potrebbe innescare fenomeni virtuosi sia nel mondo della finanza che in quello dell’economia reale.
Se il Paese può trarre notevoli vantaggi dalle potenzialità di crescita della previdenza complementare, anche dal punto di vista dei lavoratori sussistono rilevanti ragioni che ne giustificano la salvaguardia. Elementi di convenienza quali il contributo addizionale del datore di lavoro e i benefici fiscali, soprattutto con riguardo alla tassazione della prestazione, sono spesso trascurati con negligenza dai commentatori.
Stanti tali premesse, la creazione di condizioni di fiducia e affidabilità intorno alla previdenza complementare è un obiettivo di interesse pubblico che dovrebbe essere condiviso da tutti, autorità, rappresentanze sindacali e operatori.
In luogo di tale assunzione di responsabilità, assistiamo invece a un fenomeno che definirei di rimozione dei problemi e di marginalizzazione del settore, quasi fosse in corso una sorta di “pentimento” sulla scelta a suo tempo intrapresa di creare un secondo pilastro previdenziale da affiancare alla previdenza obbligatoria riformata in senso contributivo.
Fermo restando che, comunque, quasi 5 milioni di italiani hanno dato fiducia al sistema e legittimamente aspettano di essere tutelati nella loro lunga marcia verso la pensione integrativa, non è dato a tutt’oggi ravvisare un indirizzo riformatore alternativo che giustifichi tale indifferenza.
La credibilità del settore dovrebbe essere invece confermata mediante alcuni incisivi interventi tesi essenzialmente a riproporre quale pietra angolare la finalità previdenziale dell’investimento nei fondi pensione. E’ importante allora che si superi la visione, ispirata anche, in un certo senso, dalla legislazione del sistema, secondo la quale l’investimento nei mercati finanziari sia di per sé in grado di garantire la sostenibilità dell’obiettivo indicato dalla legge di “assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale” (art. 1, D.Lgs. 252/05). Le due potenti crisi finanziarie che hanno investito i fondi italiani nei primi dieci anni della loro esistenza hanno consentito di sperimentare nella vita pratica la lacunosità di tale paradigma. La crisi ha fatto apparire chiaramente che i fondi pensione non sono assimilabili ai fondi comuni investimento, di cui invece hanno mutuato, pur in presenza di specifici limiti e criteri prudenziali per ciò che attiene agli investimenti, parte dell’impianto complessivo.
Non è dunque soltanto imputabile a circostanze avverse se nei prossimi mesi migliaia di lavoratori, prossimi alla pensione o rimasti senza occupazione, usciranno dalla previdenza complementare subendo, in tutto o in parte, le conseguenze delle pesanti cadute dei rendimenti. Nel caso di quelli prossimi al pensionamento, il montante accumulato non è sempre stato salvaguardato (come sarebbe stato possibile, oltre che necessario), destinandolo a linee di investimento prudenziali; nel caso di quelli costretti al riscatto per protratta disoccupazione, non è, allo stato, attivabile alcuna forma di garanzia a carattere mutualistico.
Tali eventi testimoniano quanto sia necessario che gli iscritti siano debitamente assistiti nell’ambito delle rilevanti decisioni che sono chiamati ad adottare; proprio per questo è opportuno prevedere che l’investimento previdenziale sia tarato sulle loro esigenze individuali, anagrafiche, reddituali, patrimoniali.
E’ parimenti importante che il rischio “sopportabile” si rispecchi nelle scelte di allocazione dei contributi che il soggetto iscritto andrà a compiere. Accanto a percorsi educativi, volti ad aumentare la consapevolezza del singolo, altrettanto rilevante è la disponibilità di soluzioni precostituite semplici, che potrebbero anche costituire un’offerta di default, in assenza di diverse indicazioni da parte degli interessati.
Esistono modelli già sperimentati di articolazione dei comparti di investimento che prevedono una diminuzione graduale del rischio assunto all’avvicinarsi della data di pensionamento (lifecycle, targetdate). Altri potrebbero esserne opportunamente elaborati. La speranza è che la crisi attuale sia di stimolo, non già a rinnegare lo sforzo compiuto, ma a generare un “concorso di idee” che metta al centro l’esigenza di fondo del lavoratore: il conseguimento di una rendita pensionistica adeguata.
Bruno Mangiatordi
Previdente Vicario Covip