A chi conviene la scelta più conveniente (con le tasse sulle plusvalenze al 26%)

Tra i pochi effetti positivi che la crisi ha introdotto nella nostra vita è da registrare una maggiore attenzione al denaro: dall’aumento del risparmio (+3,8% l’anno, dati Abi monthly outlook) alla spesa: con una riduzione dei consumi e con un’attenzione marcata al prezzo/qualità. L’Università Bocconi ha dato una misura a questo aspetto: rispetto a sei anni fa gli italiani hanno aumentato il tempo impiegato a fare acquisti del 20%. La necessità di scegliere con accuratezza prevale rispetto alla frenesia che contraddistingue le vite quotidiane (e non solo nelle metropoli). Un dato positivo, sotto molti aspetti, che esalta il calcolo di convenienza, punto di forza del consumatore consapevole e informato, anche in materia finanziaria.

E’ lecito infatti immaginare che se andrà in porto la riforma della tassazione sulle plusvalenze finanziarie presentata nei giorni scorsi da Matteo Renzi, ciò spingerà risparmiatori e investitori ad “arbitraggi” per ottimizzare fiscalmente il proprio portafoglio: un’imposizione del 26% su un corporate bond potrebbe rendere questo titolo meno conveniente rispetto a un’obbligazione pubblica su cui grava il 12,5% di imposta, ad analogo rapporto tra rischio e rendimento. Dal che ne deriva un destino davvero poco florido per bond societari e bancari, in futuro. In questi giorni sono stati citati numerosi esempi di piccole e grandi distorsioni possibili. Una di queste rischia paradossalmente di creare molti problemi, visto che si allarga il delta di convenienza tra fondi pensione (dal 15 al 9% di aliquota, oltre all’incentivo fiscale alla sottoscrizione) e i i fondi comuni tassati al 26%, almeno per gli asset non investiti in titoli di Stato.

Il calcolo di convenienza potrebbe spingere molti a preferire, a parità di strategie, uno strumento al posto di un altro, creando veri e proprio arbitraggi che la teoria economica indica come negasti. Per esempio quello che potrebbe privilegiare la previdenza al risparmio gestito. Al di là delle scelte individuali, ha un valore di politica economica rilevante il fatto che se lo facesse con il proprio Tfr chi lavora in aziende con oltre 50 dipendenti, sottrarrebbe allo Stato una fetta di quei 6 miliardi di euro di flusso annuo incassato come forma surrettizia di tassa sulla mancata previdenza e in capo a chi (magari) crede di aver lasciato la propria liquidazione in azienda. Di conseguenza, se la quota di iscritti sulla platea potenziale salisse dal 25 al 35%, al Tesoro verrebbe a mancare quasi un miliardo di euro l’anno. Arriva al pettine quel conflitto di interesse segnalato anni fa su Plus24 al momento della definizione della normativa: e che pone lo Stato davanti al dubbio se preferire incentivare una maggiore estensione delle coperture previdenziali degli individui, a tutela di un concreto rischio povertà prossimo venturo, o le coperture di bilancio per la spesa corrente. Compresa quella destinata alle prestazioni pensionistiche attuali.