Il vero pericolo? Sopravvivere al proprio denaro. Arrivare cioè a un momento della vita in cui la benzina nel nostro serbatoio sarà finita mentre non saremo ancora arrivati a destinazione. Per fortuna: la vita media si sta allungando, grazie ai progressi della medicina che incrementa la longevità in tutto il pianeta. Come evitare dunque una vecchiaia indigente? Iniziamo con il definire questo come il longevity risk, ossia il rischio di vivere più di quanto pensato; e programmato, almeno dal punto di vista del risparmio.
Com’è noto le pensioni pubbliche in futuro saranno meno generose di quelle che ottiene chi oggi smette di lavorare: per questo è indispensabile iniziare a risparmiare in modo adeguato con largo anticipo. Un quarantenne incasserà una pensione pari al 65,1% del suo ultimo stipendio. Se aderisce a un fondo pensione potrà aggiungere un ulteriore 8%. Ma molti italiani non si fidano ancora della previdenza complementare: aderisce solo il 22% del bacino potenziale.
Una buona fetta dei 2.570 miliardi di euro di patrimonio finanziario netto – una cifra ben superiore alla ricchezza delle famiglie francesi (2010) o tedesche (1980) – è utilizzata per coprire dal rischio longevità con il fai-da-te. Mattone, titoli di Stato, obbligazioni bancarie, azioni, gestioni patrimoniali. I rischi? Molteplici: dal market timing all’inflazione fino al rischio controparte. Al netto ovviamente delle asimmetrie informative che collocano l’utente finale di servizi finanziari dalla parte svantaggiata: si pensi solo all’inefficienza di molti fondi monetari rispetto agli stessi titoli in cui investono. A pagina 6 abbiamo provato a fare qualche confronto.
L’altra via, quella collettiva, passa da strumenti come i fondi pensione. Il loro compito è erogare rendite: per farlo devono calcolare quale sarà l’esborso totale e per quanti soggetti. Una fotografia che inevitabilmente viene un po’ «mossa», in quanto le aspettative di vita cambiano continuamente. Un esempio? Nel 1971 la probabilità che un uomo inglese di 65 anni vivesse fino a 90 anni era del 5%, mentre ora si stima che nel 2020 un 65enne inglese su quattro raggiungerà i 90 anni. Ma questo 25% di probabilità è in realtà la media di una banda di oscillazione tra il 17 e il 35%: «È esattamente questo il longevity risk – spiega Carlo Favero docente di Quantitative Finance and Asset Pricing presso l’Università Bocconi –: una variabile che espone le istituzioni che pagano rendite vitalizie a un rischio notevole. È emersa la proposta di creare un mercato dei longevity bond, cioè obbligazioni indicizzate alla longevità, che consentano di diversificare il rischio».
Una soluzione che però fa fatica a decollare: «In realtà non c’è la fila di soggetti desiderosi di assumersi questi rischi – dice Onno Steenbeek, direttore rischio e gestione delle rendite per il fondo pensione olandese Apg –; e chi lo fa si fa pagare caro. Con un mercato tale, tanto vale assumersi in proprio il rischio». È il punto di vista di un fondo a prestazione definita, che definisce a priori i rendimenti necessari per gli esborsi. In tutto il mondo questi strumenti vengono rimpiazzati da quelli a contribuzione definita come quelli italiani. Che nei prossimi decenni faranno i conti con variabili rilevanti.
E infatti è in consultazione un provvedimento del Ministero dell’Economia con le linee guida che i fondi devono seguire se e quando intendono erogare direttamente le rendite: detenere a riserva aggiuntiva (oltre a quella prudenziale, secondo Solvency I) il 4% del patrimonio e considerare l’ipotesi di intervenire sulle prestazioni in caso di squilibrio attuariale (cosa già prevista per i fondi preesistenti). Un’impresa tutt’altro che facile: da far digerire oltre che realizzare. Una soluzione l’indica Swiss Re, colosso riassicurativo elvetico: «Sviluppare un robusto approccio predittivo e un modello di analisi sullo sviluppo delle cure contro le malattie più diffuse può aiutare».
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