Autostrade, porti e aeroporti, ma anche le utility, costituiscono il sottostante di un’asset class che, negli ultimi anni, ha raccolto un flusso crescente di capitali da parte degli investitori istituzionali. La ragione? Prima di tutto i rendimenti: stando a un sondaggio condotto da Bfinance su 15 grandi fondi infrastrutturali internazionali, il 67% dei gestori prevede ritorni netti annui nell’ordine del 10-15% nei prossimi tre anni. Un risultato non da poco, soprattutto in un periodo di elevata volatilità del comparto azionario e di rendimenti minimi per le obbligazioni statali. Così, già nella prima metà del 2010, il 19% dei fondi pensione contava di aumentare l’esposizione sul comparto infrastrutturale entro la fine dell’anno, e il 38% prevedeva una crescita significativa di qui a tre anni (ben prima, quindi, dell'annuncio del presidente Usa Barack Obama sul piano di investimenti da 50 miliardi di dollari in sei anni da parte dell'amministrazione di Washington. Ma non sono soltanto le possibilità di guadagno a spingere il mondo della pensione integrativa verso le infrastrutture. «Le caratteristiche di questa tipologia d’investimento – spiega Ottavia Sebastiani, director business development di Bfinance – rispondono perfettamente alle esigenze dei fondi pensione. Si tratta di opportunità di lungo periodo, che proteggono dall’inflazione, poco correlati con le asset class tradizionali e in grado di muovere grandi quantità di capitale». L’interesse verso gli investimenti infrastrutturali è dimostrato dal boom di fondi specializzati negli ultimi anni: se nel 2005 erano 118, nel 2010 hanno raggiunto quota 449, con una crescita del 280 per cento. Di questi, il 67% investe in greenfield (lo sviluppo ex novo di infrastrutture) e il 65% in brownfield (la ristrutturazione di infrastrutture esistenti, una strategia che, essendovi già un avviamento, offre un grado di rischio inferiore). Nel 2009 la dimensione media di ciascun fondo era di 577 milioni di dollari. Il sondaggio Bfinance evidenzia come L’Europa offra ancora le migliori opportunità. Il 46% dei gestori, infatti, individua in quest’area il proprio obiettivo principale, il 27% opera in ambito globale, il 20% si concentra sulle Americhe e solo il 7% cerca sbocchi in Asia o altrove. Il fondo chiuso è la struttura preferita dal 67% degli intervistati, e il 60% ritiene che la durata ottimale dell’investimento sia compresa tra 10 e 12 anni. Le infrastrutture, però, non sono adatte a tutti i fondi pensione. «La struttura dell’investimento – aggiunge Sebastiani – è uguale a quella del private equity e conserva tutti i rischi associati alle private companies. Il caso del fallimento di Babcock & Brown dovrebbe costituire un monito contro facili entusiasmi. Bisogna quindi verificare il livello di rischio consentito al fondo pensione stesso». Spinosa anche la questione della trasparenza sui costi: solo il 33% dei gestori ha reso pubblica la stima delle commissioni totali. Secondo Vikram Aggarwal, senior associate di Bfinance, «Le infrastrutture hanno una struttura delle commissioni diversa dalle altre asset class, creando agli investitori una certa difficoltà nel calcolare con precisione i costi e, quindi, i rendimenti previsti.
di Andrea Curiat
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