Fondi pensione, prove tecniche di reversibilità

Un "tagliando" a costo zero, almeno dal punto di vista fiscale. L’unica cosa certa delle possibili revisioni alla normativa previdenziale, anticipate nei giorni scorsi prima dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi e poi dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, è che – salvo colpi di scena – non ci saranno nuovi incentivi fiscali: le esigenze di bilancio dello Stato sono tali da rendere impensabili minori entrate per il Fisco. L’attenzione generale è stata invece concentrata sulla reversibilità della scelta di destinazione del proprio Tfr; alcuni osservatori la ritengono in grado di incentivare all’adesione chi ne è stato frenato dalla impossibilità di recedere dalla decisione di conferire il proprio Tfr a un fondo pensione.

In realtà il diritto di recesso è previsto già in caso di chiusura del contratto di lavoro (perdita dei requisiti di iscrizione al fondo), possibilità evidentemente non sufficiente per non far sentire il lavoratore costretto ad aderire alla previdenza complementare. Ma in cosa consisterà la reversibilità della scelta?

IL FUTURO O ANCHE IL PASSATO?

Da definire – come hanno sottolineato sia Draghi, sia Sacconi – sono le forme con cui garantire la possibilità di cambiare idea: la nuova decisione potrebbe riguardare la destinazione solo del Tfr maturando o anche di quanto versato e maturato nei fondi pensione, fino al momento del ripensamento. Secondo quanto risulta a «Plus24» il Ministero del Welfare sarebbe orientato verso questa seconda ipotesi: che andrebbe però a scontrarsi contro l’intero mercato previdenziale: fondi negoziali ma anche banche, Sgr, Sim e compagnie assicurative che hanno lanciato fondi pensione aperti e piani individuali pensionistici, rischierebbero di di veder azzerati i loro patrimoni (detengono 17 miliardi di euro, più altri 36 gestiti dai fondi preesistenti), in caso di reazione "umorale" dei lavoratori alle oscillazioni di Borsa.

IN AZIENDA O ALL’INPS?

Altro dettaglio da capire: dove finirà il Tfr maturando di chi lavora in un’azienda con almeno 50 dipendenti che intende uscire da un fondo pensione? Alla propria azienda, come accadeva prima della 252/2005, oppure al FondoTesoreria, chiamato sulla carta a finanziare le infrastrutture del Paese (ha raccolto finora oltre 6 miliardi di euro, ma non ci sono notizie sui piani di utilizzo di questa liquidità)? Nel primo caso ne trarrebbero beneficio le imprese, nel secondo lo Stato, che grazie al ripensamento dei lavoratori incasserebbe una mezza finanziaria, gratis, senza colpo ferire.

CONTRIBUTO DATORIALE

Non piace né ai sindacati né alle imprese l’ipotesi di estendere alle forme individuali (aperti e Pip) il versamento del contributo del datore di lavoro, in caso di suo contributo volontario oltre al Tfr. Anche se Sgr e compagnie assicurative sono pronte ad aprire la propria governance alle parti sociali. Quel che è certo è che si ragiona sulla possibilità che l’aderente che sceglie una forma individuale abbia un contributo datoriale ridotta al 50% di quanto destinato ai fondi negoziali. Per banche e assicurazioni sarebbe una festa dimezzata: comunque migliore del regime attuale.

INFORMAZIONE E CULTURA

Al di là della rincorsa alla fiducia del lavoratore, con colpi di lima più o meno vigorosi, tutti sono d’accordo nell’intervenire sul deficit di informazione in materia. È necessario investire per evidenziare gli elementi di convenienza per l’aderente, nel contesto di un Welfare della responsabilità dell’individuo: anche per alleggerire il già pesante onere previdenziale della spesa pubblica. Meno chiaro chi debba aprire il portafoglio per queste iniziative: l’anno scorso l’Esecutivo investì circa 17 milioni di euro per la comunicazione istituzionale sulla scelta del Tfr. Difficile pensare a stanziamenti maggiori nel prossimo futuro. Così l’incarico di educare gli italiani alla previdenza sarà in capo alla stampa e al mercato dell’offerta.