Meccanismi automatici oppure una vera e propria consulenza previdenziale. Sono queste le soluzioni adottate dalla gran parte dei fondi pensione a livello internazionale per accompagnare i propri iscritti fino all’età della pensione e oltre ancora. È quanto emerge dal Mercer 2009 global Dc survey, il sondaggio condotto nelle ultime settimane dalla società di consulenza tra circa 1500 fondi pensione a contribuzione definita (Dc, ossia defined contribution) di tutto il pianeta, offerti dalle società loro sponsor o contrattuali, come nel caso della decina di negoziali italiani interpellati. Il focus dell’indagine riguarda le mosse dei fondi pensione che stanno sostituendo gli schemi a prestazione definita, con quelli a contribuzione definita, più efficienti e meno costosi. Ma con una controindicazione: il sistema a contribuzione definita carica sulle spalle dell’aderente il rischio di mercato, affidandogli scelte di investimento che negli schemi a prestazione definita vengono assunti dal fondo stesso. Ne consegue la libertà di sbagliare o l’inerzia comportamentale, rispetto a scelte complesse, che penalizzano il singolo aderente. Il caso italiano è emblematico a riguardo.
Per compensare questa dinamica gran parte dei 1500 fondi pensione a contribuzione definita passa all’azione: il 55% di loro assumendo un ruolo di «facilitatore», fornendo cioè ai lavoratori iscritti gli strumenti utili per accumulare un montante tale da essere convertito in pensioni adeguate; un altro 27% parla esplicitamente di approccio «paternalistico» alla materia, mentre solo il 18% dei fondi interpellati si limita a fornire solo gli strumenti di base.
Due le strade percorse dai fondi pensione. La prima è quella di fornire agli iscritti strumenti di «educazione previdenziale»: il 76% offre un sito web con dati e statistiche, il 71% ha dato vita ad un call center, l’80% fornisce informazioni trimestrali sull’andamento della gestione, il 64% organizza incontri pubblici mentre il 62% ha intrapreso iniziative di divulgazione finanziaria. La seconda prevede invece l’implementazione di «autopilot features»: automatismi in materia di adesione (con meccanismi come il silenzio/assenso) oppure di crescita progressiva delle quote contributive o anche di ribilanciamento delle scelte di investimento. L’80% dei 1500 fondi contattati da Mercer afferma di aver istituito un’opzione di default che corrisponde in due casi su tre in un lifecycle, declinato nelle tre modalità canoniche: lifestyle, che adegua automaticamente l’asset allocation nel tempo, i target date che la cambiano a seconda della distanza in termini di anni dal momento della pensione; e infine il target risk che adeguano la composizione di azioni e obbligazioni a seconda del profilo di rischio dell’aderente. Da notare che nove fondi su dieci nel dopo crisi finanziaria contano di introdurre novità nella propria offerta, guardano proprio al lifecycle.
Soluzioni come queste vengono adottate in modo assai differente di paese in paese, complice evidentemente la normativa in vigore in ciascuna nazione. Negli Stati Uniti la quasi totalità dei fondi a contribuzione definita offrono un meccanismo lifecycle come opzione di default; e in 8 casi su 9 si tratta di un target date. Ma poco più a nord, ossia in Canada, solo il 18% dei fondi prevede questa opportunità. Più o meno come accade in Australia, dove il lifecycle come linea di default è presente solo in un fondo su 5: in cambio però il sistema previdenziale australiano mette a disposizione degli aderenti un servizio di «financial planner» con tanto di documentazione personalizzata; anche se proprio nel paese dei canguri cresce ora l’interesse per il target date.
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