Vi ricordate il semestre di silenzio/assenso al termine del quale, dieci anni fa, oltre 12 milioni di italiani sono stati chiamati a decidere la sorte della propria “liquidazione”? A due lustri di distanza è possibile fare un bilancio di quell’operazione e di valutare l’esito delle due scelte: quella di continuare a destinare il proprio trattamento di fine rapporto in azienda o allo Stato (per i dipendenti di aziende con oltre 50 dipendenti) oppure preferire la previdenza complementare per supportare una pensione che in prospettive rende sempre meno. Sappiamo com’è andata: al 12% degli aderenti al termine dei sei mesi di riflessione si è aggiunto un altro 13% circa; tutti gli altri hanno esercitato il “diritto di dissenso”, smentendo così i sostenitori del nudge (“spintarella”) e gli esperti di finanza comportamentale tifosi delle formule come quelle del silenzio/assenso per indurre gli individui a comportamenti efficienti. Ma chi ha compiuto la scelta migliore? Il confronto, è il caso di sottolinearlo, non è ultimativo e va condotto sotto diversi punti di vista. A partire dai rendimenti.
Il metodo migliore per un confronto di questa natura è quello di utilizzare i “gemelli”, confrontando cioè il risultato di quanto accumulato da chi ha destinato il Tfr in azienda o allo Stato e i risultato dello stesso lavoratore se avesse aderito ai fondi pensione (tecnicamente è l’analisi money weighted dei rendimenti e non time weighted). Calcoli alla mano, le prime elaborazioni sottolineano l’efficienza dell’adesione alla previdenza complementare: il Tfr ha reso circa il 6% meno di quanto affidato alla linea garantita di un fondo pensione, quasi il 7% rispetto a una linea prudente, quali l’8% nei confronto di una linea bilanciata e oltre il 10% rispetto a una linea dinamica, a maggior componente azionaria. Le gestioni previdenziali, nonostante una crisi finanziaria epocale scoppiata tra 2007 e 2008 e una crisi dei BTp nel 2011 (che rappresentano circa un quarto del portafoglio complessivo dei fondi pensione), hanno mostrato di saper rivalutare al meglio i contributi dei lavoratori che li hanno preferiti. Il tutto in uno scenario che vede, grazie alla concorrenza tra forme diverse, abbassarsi i costi sostenuti dai sottoscrittori.
Ma i fondi pensione, in questi dieci anni, sono stati anche “utili” per i lavoratori, alle prese con la crisi economica seguita a quella finanziaria: lo testimonia il ricorso alle anticipazione che ha consentito in numero decisamente maggiore rispetto alle richieste di anticipo del Tfr in azienda, di far fronte alle emergenze. Gli strumenti di previdenza complementare, infatti, offrono la possibilità di ottenere anticipazioni per il 30% del montante accumulato senza dover addurre alcuna motivazione. Non a caso questa fattispecie è stata particolarmente gettonata da quando la crisi economica ha iniziato a graffiare di più: solo nel 2015 (dati Covip) sono state erogate anticipazioni per 2,1 miliardi di euro a 187 mila iscritti ai fondi pensione, il 70% circa delle quali per “altre motivazioni”. Inoltre, la crisi ha spinto un numero crescente di iscritti a sospendere il proprio flusso contributivo. Un fenomeno che riguarda nel 30% dei casi i lavoratori dipendenti e nel 70% gli autonomi. Numeri che di anno in anno sono cresciuti sempre più.
Mosse che, evidentemente, hanno inciso sulla costruzione di quel secondo pilastro pensionistico pensato per sostenere i redditi una volta smesso di lavorare: con rendite che di conseguenza saranno ridotte. Ma, al di là dell’emergenza, la consuetudine con questo strumento ha avuto una valenza “educativa” per i sottoscrittori di fondi. La pensione non è più qualcosa che “spetta”, ma un processo che si costruisce, si smonta e si può anche rimontare: spesso gli iscritti hanno ricevuto dalle segreterie dei fondi stessi informazioni sui vantaggi fiscali della ricostruzione delle proprie posizioni. Un bilancio di questo decennio che vale come buon punto di ripartenza, per estendere in prospettiva anche il numero di aderenti, grazie anche ai progetti per una più estesa educazione finanziaria che parta dalle scuole ma che coinvolga anche gli adulti.