Tfr le contraddizioni dello Stato consulente e gestore

Come valutereste un consulente finanziario che nel corso di pochi anni vi consiglia di: 1) bloccare una fetta dei vostri flussi finanziari con un rendimento basso ma con un orizzonte temporale molto lungo: fino alla pensione; 2) in caso di emergenza trovi il modo di farvi arrivare del denaro, ma con il rischio di aggravare la salute di altri vostri asset; 3) visto che l’emergenza continua decida di ripetere il meccanismo di cui al punto (2) svincolando una parte del blocco di cui al punto (1), incassando laute commissioni. Certo, è un caso di scuola, astratto e ipotetico, che magari in pochi riconosceranno come proprio (fortunatamente).

Eppure è all’incirca la dinamica che si è innescata tra lo Stato e i risparmiatori italiani. La Prima Repubblica, dominata dal paternalismo Dc, aveva escogitato l’introduzione del trattamento di fine rapporto (Tfr) per compensare le imprese italiane dalla scarsa dinamicità del sistema del credito, offrendo loro a tassi modesti una quota delle buste paga dei dipendenti. E allo stesso tempo per “aiutare” il singolo a risparmiare nel lungo termine e frenare la sua emotività nel comprare e vendere con impulsività le proprie attività finanziarie. Hanno mostrato capacità maggiori coloro che hanno introdotto questa norma? L’ammontare del debito pubblico italiano è la migliore risposta. La mossa del governo in carica, prima con il credito Irpef degli 80 euro e ora con la possibilità di incassare metà del Tfr, presenta una natura opposta, emergenziale: per far ripartire i consumi e quindi l’economia si mettono i soldi in mano ai singoli, con un’inversione a 180° rispetto al paternalismo Dc.

Anche l’assunto di base è totalmente rivoluzionato: gli italiani sono diventati ora talmente maturi da saper fare la cosa giusta. Peccato che il tessuto economico italiano, a differenza di quello statunitense, non è guidato dai consumi ma dagli investimenti. E peccato che, come scritto due settimane fa su queste colonne, gli italiani nei momenti di incertezza risparmiano e non spendono. Peccato invece che, in tutti questi anni, non si sia perseguita una terza via: la costruzione di un sentiero di alfabetizzazione finanziaria diffusa, di informativa sul destino previdenziale con la «busta arancione» (ricorda commissario Treu? l’aveva messa Lei nella legge Dini, 19 anni fa), modi per valorizzare il dna del risparmio presente nella nostra cultura contadina. Per non parlare della capacità dello Stato di “gestire” i contributi dei lavoratori: in realtà l’Inps non gestisce i contributi, ma usa i contributi per pagare le pensioni; e mette le liabilities, ossia le rendite da pagare in futuro (debito in divenire) in un conto a parte, con un tasso di rivalutazione pari alla media geometrica del Pil nominale a 5 anni: correlando cioè il futuro degli italiani con il presente degli italiani, senza diversificare la fonte di rivalutazione (come accade invece nella previdenza complementare, che non a caso ha reso negli ultimi anni molto più del Pil italiano e con un grado di rischio non altrettantosuperiore).

Un merito però ce l’ha il dibattito sul Tfr (la valutazione degli italiani sull’ipotesi la trovate a pag. 9): ha aiutato i singoli a distinguere tra l’uovo oggi e la gallina domani. E a fare la scelta giusta: da soli.