Da anni ci si lavora intorno: trovare il modo per far sì che i contributi dei lavoratori – che escono dalle loro buste paghe per andare nei fondi pensione – sottraendoli così a datori di lavoro o allo Stato – rientrino nell’economia reale del Paese. E, auspicabilmente, diventino un volano di ripresa del sistema Italia, invece che investimento nelle blue chip internazionali; sì, perché la maggioranza del patrimonio in azioni degli investitori istituzionali è investita in titoli esteri; i titoli tricolosi sono quasi esclusivamente titoli di Stato italiani, meno del 30% del totale e in riduzione rispetto al passato. Diverse le opzioni vagliate negli ultimi anni: da emissioni del Tesoro destinate specificamente ai fondi pensione, ai temuti “vincoli” di portafoglio sulla destinazione degli investimenti che impongano un obbligo di investire in asset italiani una porzione del portafoglio, a prescindere da redditività, liquidabilità e merito di credito dei titoli, fino alla possibilità di sottoscrivere bond emessi da un soggetto come Cassa Depositi e Crediti, da utilizzare per le sue finalità. Tutte opzioni accantonate, cui è stata preferita la formula del “fondo dei fondi previdenziali”, che offre diverse opportunità: la volontarietà di investimento da parte del fondo garantisce di scegliere i target di investimento più profittevoli evita costrizioni che ricordano il vecchio dirigismo delle “partecipazioni statali” della Prima Repubblica. Utilizzare i risparmio da destinare alle pensioni per salvare – e fino a quando? – i carrozzoni pubblici è un’opzione che chi gestisce le pensioni di domani (i vertici di Casse e fondi pensioni, così come i gestori che ricevano da loro mandato) desiderano scongiurare.
Dunque in cosa investire? Tra le opzioni che coniugano redditività e partecipazione all’economia sono al vaglio investimenti in infrastrutture, in particolare la digitalizzazione del paese (ancora lontana dalla media Ue), o la partecipazione a strumenti di liquidità o finanziamento per le piccole e medie imprese, magari anche in collaborazione con altri player finanziari come la Banca europea degli investimenti (istituzione finanziaria dell’Unione europea nata nel 1957 con il Trattato di Roma, per il finanziamento degli investimenti atti a sostenere gli obiettivi politici dell’Unione). Ciò che sta a cuore ai vertici di Casse e fondi è l’orizzonte temporale di queste scelte, di medio e lungo termine, correlati così all’orizzonte degli stessi: che non è lunghissimo come dovrebbe essere, visto che la necessità di contabilizzare mark-to-market i valori dei titoli in portafoglio e il ricorso frequente alle anticipazioni da parte degli iscritti tiene i fondi particolarmente liquidi. Ma che si lavora ad allungare.
La scelta del target di investimento non è disgiunta dalla governance di questo fondo: parteciperà anche un soggetto espressione del Ministero dell’Economia? E/o di Cassa Depositi e Prestiti che del dicastero è il braccio finanziario operativo sul mercato? Non è solo una questione di poltrone: si tratta di sciogliere il nodo fiscale, perchè quest’operazione messa in campo dai veicoli previdenziali non è certo una mossa speculativa e proprio per questo fondi pensione e Casse, che per conto dei loro iscritti metteranno del denaro nel sistema paese, si aspettano un’aliquota fiscalità inferiore a quella standard. Attualmente è stato elevato il prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione all’11,5%, per evitare di innalzare il prelievo sulle Casse dal 20% al 26%, in attesa di una revisione più complessiva del Fisco applicato alla previdenza. Sarà questa l’occasione migliore per verificare il peso delle necessità contingenti del Tesoro con la capacità di incentivare anche fiscalmente le strategie di medio/lungo termine.