Due o tre cose che so su dove mettere il Tfr (e per farne cosa)

Ma quanti sono davvero i lavoratori che aderiscono alla previdenza complementare? Sono cifre che fanno sperare che gli italiani stiano andando incontro a una pensione dignitosa oppure si troveranno buchi previdenziali tali da finire dritto dritto in una situazione di povertà. Il dibattito sul Tfr e sul progetto di riformarne la devoluzione in busta paga secondo il piano del governo, che prevede il 50% direttamente nelle buste paga dei lavoratori, ha senso se si riflette sulla natura dello strumento – da mantenere, riformare o sopprimere – e nei primi due casi sulla destinazione: in azienda o allo Stato come liquidità oppure a un fondo pensione per costituire un secondo pilastro previdenziale indispensabile per avere una pensione dignihtosa. Opzione di minoranza, visti i numeri, il che ci fa venire seri dubbi sul destino economico e previdenziale degli italiani.  Per non parlare dell’efficacia di destinare denaro in busta paga, vedi il caso degli 80 euro, come raccontato su Plus24.

Ma quanti sono coloro che risparmiano a fini previdenziale? I dati più recenti della Covip, commissione di vigilanza sui fondi pensione, parlano di 6,2 milioni di individui tra lavoratori dipendenti, autonomi, professionisti, oltre a soggetti non in attività lavorativa (familiari a carico, per esempio). Di questi 6,2 milioni sono 1,95 quelli che aderiscono a un fondo di categoria, tipicamente di secondo pilastro (con contributo datoriale, sgrafi fiscale, rappresentanza degli iscritti nella governance, ecc.). Anche in questi caso la crisi ha colpito duro: secondo l’ultima relazione Covip relativa al 2013 circa 200mila iscritti hanno interrotto la contribuzione, evidentemente per la perdita del posto di lavoro. Dunque gli iscritti versanti sono circa 1,8 milioni; non tutti, evidendemente, versano esattamente la cifra necessaria per andare in pensione in modo sereno, vista la carenza di consulenza personalizzata agli iscritti. Le cose non vanno meglio per le forme individuali e in particolare per i Pip, lo strumenti che ha mostrato i maggiori tassi di crescita recentemente (6,9% solo nei primi sei mesi dell’anno) fino a 2,28 milioni di iscritti: lo stop ai versamenti riguarda il 35% degli aderenti, evidentemente a causa della crisi che induce chi non è vincolato a versare il Tfr a fermare i versamenti, forse anche per la scarsa efficienza dello strumento. Insomma solo due su tre iscritto a un Pip risparmia davvero a fini previdenziali, gli altri si troveranno buchi contributivi, aggiuntivi a quelli che potrebbero essere causati dalle interruzioni contributive di primo pilastro per periodi di inoccupazione.

La previdenza complementare rappresenta quindi un paracadute per pochi. Il trattamento di fine rapporto serve però anche alle imprese: 11 miliardi di euro di flusso netto che resta nelle casse delle piccole e medie imprese. Anche lo Stato ci rimette in caso di riforma del Tfr: sono sei i miliardi che incassa dalle buste paga dei lavoratori dipendenti privati che non aderiscono ai fondi pensione. E’ evidente che in questa fase recuperare altri 17 miliardi di euro l’anno per realizzare questa operazione non rappresenta una strada in discesa per Pier Carlo Padoan. Ma è il senso dell’operazione da focalizzare: riuscirebbe la destinazione del 50% deòl Tfr in busta paga a far ripartire i consumi laddove gli 80 euro – ancora – non hanno prodotto forti risultati? Il male italiano oggi è la carenza di consumi oppure di investimenti e ricerca? A meno che l’obiettivo non sia un altro per il governo: metter le mani anche sul flusso annuo di 5,5 miliardi di denaro che gli italiani versano nella loro previdenza; o sui 120 miliardi di patrimonio dei fondi pensione e dei 60 miliardi delle Casse privatizzate di primo pilastro.