Il primo e vero allarme l’hanno dato qualche settimana fa i ricercatori della London Business School: scordatevi nel futuro i rendimenti azionari del passato; l’equity premium – il rendimento in eccesso ottenuto in cambio del maggior rischio rispetto al cash – scenderà tra il 3% e il 3,5%, dal livello storico 4%. Siamo lontani da rialzi dell’ordine del 7,5% l’anno che i fondi pensione a contribuzione definita hanno ottenuto negli ultimi dieci anni, come riferisce Tower Watson. L’eredità della crisi finanziaria è tutta in questa certezza: le azioni, strumento faro delle gestioni di lungo termine, daranno meno soddisfazioni in futuro. E d’altro canto i mercati obbligazionari, nonostante le fiammate inflazionistiche di cui parliamo in copertina, difficilmente offriranno rendimenti accattivanti: causa il carico di debito degli emittenti sovrani, per i quali cedole più alte equivalgono a salassi fiscali pericolosi.
Quali ricette dunque, per assicurare in futuro pensioni in linea con le (alte) aspettative degli iscritti? Indicazioni arrivano dal sondaggio realizzato nelle ultime settimane da bfinance – consulente finanziario indipendente di investitori istituzionali – tra 50 fondi pensione europei e nordamericani, complessivamente 150 miliardi di euro in portafoglio. Le intenzioni sono chiare: l’esposizione al reddito fisso sarà del 27% nei prossimi sei mesi, un ritocco all’insù per le azioni a breve, ma a tre anni il taglio sarà del 14% e contemporaneamente si conta di incrementare l’esposizione in infrastrutture e private equity rispettivamente del 14 e del 10%. Già negli ultimi 15 anni le asset class alternative sono passate, secondo il monitoraggio di Tower Watson, dal 5 al 19% del portafoglio. Sempre meno asset liquidi e regolamentati, quindi, e sempre più strumenti non quotati.
La ricetta dei fondi interpellati da bfinance è, come spiega Emmanuel Léchére capo del Market Intelligence Group di bfinance, «migliorare la diversificazione, allargando il nòvero delle asset class da includere in portafoglio, in modo da ridurre la dipendenza da rendimenti degli investimenti tradizionali potenzialmente meno attrattivi». Non è certo una novità che gli strumenti impermeabili al mark-to-market siano i preferiti da chi gestisce in orizzonti temporali di lungo termine. La precedente edizione del sondaggio registrava il grande interesse per le infrastrutture: due terzi dei fondi pensione stimava ritorni dell’ordine del 10-15% netti annui nei prossimi tre anni. Poco dopo il presidente Usa Barack Obama lanciò investimenti in infrastrutture per 50 miliardi di dollari in sei anni.
Ma c’è da fidarsi a investire in strumenti non quotati e alternativi? In cui non a caso i fondi pensione italiani non possono investire, secondo i dettami prudenziali del decreto 703/96 (in vista di riforma)? «Strumenti come materie prime agricole, l’energia e i metalli – dice Giambattista Chiarelli Responsabile sviluppo per il Sud-Europa di Pictet Asset Management – offrono un’ottima copertura dall’inflazione nel lungo periodo, ma nel breve la loro illiquidità può provocare shock rilevanti. Le valute dei paesi emergenti, fotografate nell’indice Jp Emli, offrono una forma utile per diversificare e gestire il rischio inflazione». Barclays Capital concorda: l’equity in valuta dei paesi emergenti salirà del 10,5% l’anno prossimamente. Il difficile, dicono i gestori inglesi, è convincere gli investitori dei paesi industriali a rimuovere l’home bias, la predilezione a investire in titoli domestici: il valore è altrove.
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