«Un dipendente di un’azienda privata che oggi ha 40 anni andrà in pensione col 60% dell’ultimo stipendio. Se non corre ai ripari da subito avrà un calo drammatico del suo tenore di vita». Riccardo Cesari è docente di Matematica Finanziaria all’Università di Bologna ed è uno dei massimi esperti di previdenza complementare in Italia.
«Per far ciò servirebbe una consulenza previdenziale seria».
Che in Italia manca. Pochi fondi si accollano l’onere di dire all’aderente cosa è meglio fare….
Eppure è necessario: non è una possibilità o un rischio, ma è certo che il cosiddetto tasso di sostituzione (prima pensione su ultimo stipendio), dall’attuale 75-80% scenderà drasticamente negli anni a venire. Le stime, molto precise, sono della Ragioneria Generale dello Stato. Per questo bisogna partire da qui: quanto di quella scopertura si può riuscire a compensare con la previdenza complementare.
Oggi si va in pensione con circa l’80% dell'ultimo stipendio netto. I 40enni di oggi possono arrivare a questi livelli aderendo a un fondo pensione?
A determinate condizioni sì: contribuendo in modo appropriato, per esempio. Non si può pensare di avere mille euro al mese di rendita se si versano cento euro l’anno. Nel dettaglio, si tratta di calibrare la giusta correlazione tra quanto versare, per quanto tempo e con quale mix rischio/rendimento.
Quanto è necessario versare come minimo?
Dipende. Con le basi utilizzate dalla Ragioneria Generale dello Stato, oltre al 6,91% del Tfr e all’1% di contributo datoriale, per compensare un gap tra primo assegno pensionistico e ultimo stipendio in dieci anni è necessario versare un ulteriore 4% del proprio reddito, ipotizzando una rivalutazione del fondo pensione pari al 3,5%, in linea la crescita del Pil nominale usata dalla Rgs.
Su un orizzonte di 20 anni l’aliquota contributiva può scendere al 3% e su 30 anni all’1.5%.
Significa accantonare in un fondo pensione in totale, anche il 10% del proprio reddito. E chi non riesce ad andare oltre l’1,5%?
In questo caso, calcoli alla mano, servono vent’anni e un rendimento medio annuo del 5% per ottenere una copertura vicina al 13%; oppure trent’anni per innalzare la copertura al 20% o ancora è necessario puntare ad un rendimento del 6% per ottenere il 14% in vent’anni. Evidentemente per ottenere gli stessi risultati ci sarà bisogno di più tempo o si dovrà puntare su rendimenti nel tempo superiori. Le due cose sono potenzialmente in conflitto.
Quanto pesa la scelta di comparti con una maggiore esposizione all’azionario e dunque dal maggior rapporto rischio/rendimento?
Sicuramente il rendimento atteso è una leva importante ma va correlata al tempo: in dieci anni la differenza di rendimento tra 0% e il 6% si traduce in un tasso di sostituzione leggermente migliore, dal 4,8 al 6,2%. Su un orizzonte di 30 anni il tasso di sostituzione più che raddoppia e passa da 10,6% a 24%. In sintesi: chi ha un orizzonte breve deve fare versamenti elevati in comparti a rendimento certo; chi ha un orizzonte lungo può raggiungere lo stesso obiettivo abbassando l’aliquota contributiva e puntando su comparti a maggiore redditività attesa.
Come ha inciso la recente crisi finanziaria su queste considerazioni?
La crisi ha inciso pesantemente sui mercati finanziari ma molto meno sui fondi pensione e non ho fatto perdere al sistema italiano di previdenza complementare tutti i suoi vantaggi: le sue caratteristiche di garanzia e prudenza ne fanno ancora il miglior sistema per costruirsi una tranquillità economica durante la vecchiaia. Purché si decida per tempo.