Il “Bank run” è un fenomeno analizzato con attenzione da chi ha a cuore la stabilità del sistema bancario e l’analisi dei processi decisori. Ricordate Mary Poppins? Basta un bambino che lamenta che non gli vengano restituiti i suoi soldi a scatenare un Bank run, ossia una corsa agli sportelli da parte dei clienti dell’istituto di credito che richiedono indietro immediatamente il loro denaro; un fenomeno che rischia di mandare in default la banca. Per ovviare a questo rischio il sistema ha da una parte posto vincoli al prelievo dai c/c dall’altra ha istituito fondi di garanzia in caso di insolvenza degli istituti. Sulla previdenza, ovviamente, la dinamica e’ diversa, o almeno in parte. I sistemi a prestazione definita rischiano più di quelli a contribuzione definita, in caso di massicci deflussi o, per meglio dire, nel caso in cui il numero di chi va in pensione è superiore a quello di chi invece entra nel mercato del lavoro; ma anche quelli che definiscono solo il livello contributivo e non la prestazione finale non sono impermeabili a shock di diversa natura, tali da generare un possibile “pension run”. Prendete alcune delle misure introdotte dal ddl Stabilita’; l’aumento retroattivo della tassazione sui rendimenti annui di Casse e fondi pensione e’ ancora sub iudice, ma di fatto riduce la fiducia negli strumenti ad adesione volontaria; col rischio molto concreto che si riduca il conferimento degli asset (evasione contributiva dal primo pilastro) e freni ulteriormente il gia’ basso numero di nuove adesioni (alle forme volontarie, secondo pilastro).
Ma il vero vulnus e’ la possibilità di incassare metà del flusso di Tfr in busta paga: in questo modo chi ha optato oculatamente per una “seconda pensione” o “pensione di scorta” dimezzerebbe il flusso contributivo. Il secondo pilastro previdenziale verrebbe ulteriormente ridotto, togliendo al primo un valido supporto per evitare una vecchiaia indigente. Tra l’altro la possibilità di stornare da previdenza a cash metà del Tfr rischia di rappresentare un boomerang anche per lo Stato: il flusso annuo solo di negoziali e preesistenti si attesta a 10 miliardi di euro di cui almeno un quarto in titoli di Stato italiani. Secondo alcune stime circa il 20% sceglierà il presente a danno del futuro, ma le stime dell’esecutivo si spingono fino al 50%. Stime ottimistiche dal punto di vista di Palazzo Chigi: ottimistiche nel senso che l’adesione all’opzione del “mezzo Tfr in busta paga” coincide con un accresciuto gettito per l’Erario, visto che quelle cifre sono gravate da imposte superiori a quelli previdenziali.
Ora i fondi pensione si trovano ella condizione di rivedere tutti i mandati di gestione: aumentando la quota di liquidità in portafoglio e riducendo gli investimenti immobilizzati, per poter corripondere denaro a chi ne farà richiesta (al netto dei problemi buriocratici e contabili non indifferenti). SMobilizzazioni che comprendono anche i BTp, i cui acquisti rischiano di ridursi in modo rilevante in futuro, al di là del loro profilo di rischio/rendimento. Ma il problema più consistente riguarda la tenuta del sistema previdenziale, che vede già un quarto degli aderenti richiedere ogni anno anticipazioni sul montante. Tutto ciò’ impedisce ai fondi pensione di investire nel lungo termine, imponendo scelte sempre più’ a breve: tradendo così il patto con l’aderente e alimentando il rischio del “pension fund”. Almeno finchè non sarà operativa (non manca molto) la direttiva europea che sancisce la portabilità della propria posizione previdenziale all’interno dei paesi Ue: allora potrà essere interessante guardarsi intorno e vedere chi offre servizi e prestazioni migliori di quelli del sistema italiano. E allora sì che il “pension run” sarà un rischio molto concreto.