C’è qualcosa che non funziona: la maggioranza ritiene costoso un prodotto ma non sottoscrive le versioni meno onerose; le nuove adesioni però vanno quasi tutti verso i più costosi. Il paradosso della previdenza complementare è tutto lì e l’indagine del Censis per conto di Covip, pubblicata sabato 17 novembre su "Plus24", lo testimonia. Gli italiani hanno capito che c’è un problema di rischio povertà in futuro; ma pochi si fidano dei fondi pensione, nonostante trasparenza, oneri contenuti, obiettivi di lungo termine. Crisi e recessione spiegano molte cose. «Sono un under 29 – scrive un lettore a "Plus24" – e sono due anni che imploro un contratto! Ma di quale pensione stiamo parlando? Le scuse qui in azienda sono sempre le stesse: troppe tasse, non ci sono i soldi per regolarizzare tutti..». Ma perchè allora da inizio 2012 oltre 144mila lavoratori dipendenti italiani hanno aderito a un piano individuale pensionistico (Pip) che costa quattro volte un negoziale? Costi aggiuntivi per remunerare chi vende offre anche una consulenza previdenziale. È una spiegazione esaustiva?
Il Pip di maggior successo è PostaPrevidenza Valore, di Poste italiane: mezzo milione di iscritti in pochissimi anni, prima "pensione di scorta" italiana. Un successo correlato al brand delle Poste e alla capillarità della rete di 14mila sportelli sparsi in tutta Italia oppure alla consulenza offerta in sede? Che formazione riceve in materia previdenziale chi lavora allo sportello? Interpellata sull’argomento, Poste Italiane fa sapere: «Abbiamo insegnato a quantificare nella misura del 6% del reddito mensile il versamento consigliato nel piano previdenziale»; seguono indicazioni sulla cautela in tema di performance e vantaggio fiscale. È sufficiente per pianificare la vecchiaia altrui? E quanto incassa chi colloca un Pip? Dipende da rete a rete, ma qualche stima si può fare: alla firma, la compagnia anticipa al collocatore le commissioni a carico del cliente dei successivi anni: da uno a quattro anni. Una modalità che ingolosisce, ma solo in teoria: se si considera che il versamento medio annuo in un Pip è di 1700 euro l’anno e i costi su cui si calcola l’anticipo provvigionale sono del 3,6% (Isc a 2 anni), chi colloca un Pip incassa circa 120 euro alla sottoscrizione. Se il lavoro è fatto in modo coscienzioso e si arriva alla firma al termine di un percorso consulenziale non improvvisato – due/tre incontri, con calcolo delle esigenze, delle variabili e pianificazione –, un collocatore non improvvisato difficilmente guadagna più di dieci euro l’ora. Non molto, se si considera che il mercato assicurativo premia l’agente che colloca polizze infortuni mediamente con il 30% del premio del primo annuo e fino al 120% per le polizze Ltc (long term care, che proteggono contro la non autosufficienza).
D’altra parte è vero che i costi incidono in modo rilevante: diverse fonti concordano nel calcolare differenze anche superiori al 20% tra strumenti che presentano oneri distanti di 1%. E il contributo datoriale (deducibile) aggiunge differenza a vantaggio dei negoziali nei confronti degli strumenti individuali. Come se ne esce? Con un preciso indirizzo della mano pubblica, come accade in questi mesi nel Regno Unito. In Italia lo stesso ministro del Welfare, Elsa Fornero ha invitato a non farsi illusioni sul rilancio delle adesioni: il prelievo contributivo per il primo pilastro è eccessivo per aggiungere altri contributi per tutti; sarebbe opportuna una redistribuzione dal primo al secondo pilastro dei carichi ma la condizione fiscale del paese, dice Fornero, non lo consente. Ancora una volta la patata bollente passa al ministro venturo.
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