«Chi è già andato in pensione finora ha staccato un biglietto della lotteria, per i futuri pensionati i premi saranno certamente molto ridotti o inesistenti». A sostenerlo in un recente convegno Giuseppe Orrù, decano degli attuari e uno dei massimi esperti italiani di previdenza pubblica e complementare. Una disparità evidente tra generazioni in crescente conflitto. La causa? Ce ne sono molte, non ultima il rischio politico: regole per il pensionamento generose, a livelli talvolta imbarazzanti, adottate fin circa alla caduta della prima repubblica. Norme con cui una classe politica si è assicurata il consenso degli elettori, a spese delle generazioni successive. È la storia del debito pubblico italiano, parallelo alla storia di milioni di lavoratori: man mano si avvicinano all’età in cui smettono di lavorare, mettono a fuoco la disparità di trattamento cui vanno incontro. I numeri dicono infatti che chi smette di lavorare oggi ha una pensione pari all’80% circa dell’ultimo stipendio, più il Tfr. Chi vi andrà nei prossimi decenni, dovrà affidare la liquidazione e almeno un altro 2 o 3% del proprio reddito a un fondo pensione per ottenere con una qualche probabilità qualcosa di simile, con una probabilità da monitorare. Una probabilità, non una certezza. Il solco tra le generazioni ha una data: la riforma del ’93 di Giuliano Amato che ha introdotto il sistema contributivo (avrai ciò che hai accumulato) al posto del meno sostenibile sistema retributivo, basato sul principio della solidarietà tra generazioni. L’aspirante pensionato, prima di puntare direttamente all’eredità dei propri genitori, deve quindi rimboccarsi le maniche e compiere un percorso di analisi della propria posizione previdenziale e poi di scelte. Attività risparmiata alle privilegiate generazioni precedenti.
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